LAVORARE CON LE MANI E CON GLI OCCHI, La Vita Scolastica 2016

Intervista di Francesca Tamburro.

Francesca Tamburro, un’illustratrice in formazione, intervista Giulia Orecchia, “streghetta dei colori” secondo Bruno Tognolini e illustratrice affermata con la passione per l’arteterapia. Parlano insieme di che cosa significa illustrare un libro per bambini, come fare texture e collage, in che modo l’arte e le immagini aiutano insegnanti e bambini a stare bene a scuola.

da "I disegni arrabbiati di Calvino", Mondadori.

Oggi Giulia Orecchia è un’affermata artista e illustratrice di libri per l’infanzia. Ma Giulia Orecchia come è diventata Giulia Orecchia? Quali sono stati i momenti importanti della tua storia professionale, gli incontri fortunati, essenziali a partire da quando eri piccola fino ad oggi?

Quand’ero piccola mi piaceva disegnare: era una cosa che mi dava molta gioia, molto piacere. Mi dicevano che ero brava, il che rendeva ancora più gratificante il fatto di disegnare; ho avuto la fortuna di avere dei genitori che mi hanno permesso di fare il liceo artistico – possibilità per nulla scontata. Alla fine del liceo artistico, un mio insegnante mi fece conoscere un gruppo di illustratori milanesi che lavoravano già nel settore, che erano affermati e attraverso i quali ho visto la possibilità di far diventare l’illustrazione un mestiere di cui vivere. Poi mi sono scritta alla scuola Politecnica del Design, principalmente perché ci insegnava Munari, che era un mito per me. In questi due anni della scuola politecnica ho fatto un percorso molto interessante, anche perché il programma didattico seguiva in parte i programmi della Bauhaus,  con nomi tra i più importati della grafica degli anni Settanta come Pino Tovaglia, Heinz Waibl, Bob Noorda, Narciso Silvestrini, Umberto Fenocchio. Lì ho imparato a disegnare i caratteri e a progettare immagini efficaci a comunicare contenuti, ho visitato tipografie e ho studiato come si progettano i libri. Dopodiché ho incominciato a lavorare. Il primo libro è uscito qualche anno dopo, grazie a una casa editrice, la Coccinella, che era stata da poco fondata e faceva libri di qualità, per l’epoca molto interessanti.
La formazione mi è stata molto utile, anche se me ne sono resa conto solo molto tempo dopo. Non è stata una formazione “artistica” in senso stretto: io al liceo artistico non ho imparato a “dipingere” ma a “disegnare”. Alla Scuola Politecnica ho ricevuto una formazione da grafico, che continua ad essere presente sottotraccia nel mio lavoro: guardo al libro come a un progetto complessivo e faccio collage e montaggi come un grafico.

A proposito di libri, che cosa significa per te illustrare un libro per bambini? Ci sono delle attenzioni che usi costantemente nella progettazione e nella realizzazione?

Illustrare un libro per bambini significa innanzitutto pensarlo come un progetto collettivo, nel quale lavorano tante persone. L’illustratore dunque non deve essere protagonista, deve saper far parte di un team per creare un prodotto, inserirsi in un progetto che prevede tanti contributi e dare il meglio di sé. Io cerco sempre di immaginare di avere davanti un bambino a cui debbo raccontare la storia e quindi cerco di immaginare quali possano essere le immagini che servono per gustarla, comprenderla, farla propria. Cerco di approfondire il testo e anche di dare una mia versione, di commentarlo. Immagino di essere muta, e di dover raccontare la storia solo con il linguaggio delle immagini. Uno delle regole a cui cerco sempre di attenermi è il massimo rispetto del testo, per cui le immagini debbono rispondere il più possibile al registro linguistico e al tono narrativo del testo. Ad esempio, per un testo poetico farò immagini suggestive, metaforiche; per un racconto o un testo didattico cercherò di creare immagini più narrative o descrittive.

Sulla base di quanto hai detto fino ad ora, mi viene in mente una domanda: ci sono testi più “faticosi” da illustrare rispetto ad altri? E quali sono, invece, i testi su cui lavori con più facilità e piacere?

In effetti secondo me si può fare qualcosa di interessante da qualsiasi testo. Io a volte lo faccio assecondandolo, altre volte contrastandone un po’ le parti che trovo meno felici o meno chiare. Spesso mi diverto a lavorare proprio su racconti che non corrispondono al mio gusto e modo di immaginare. Ma è stupendo e appassionante lavorare su un testo letterario di qualità: incontrare un vero scrittore e illustrarne il testo è come iniziare un viaggio, da cui si esce con gli occhi e la mente pieni di meraviglia.

Dallo stile che stai adottando negli ultimi anni è evidente che il tuo principale strumento di lavoro è il computer, quindi fai illustrazioni digitali. Perché questa scelta?

Ho acquistato il computer, nel 2000, perché mi sentivo un po’ fuori tempo, volevo mettermi al passo, aggiornarmi, ero curiosa… Dopo averlo acquistato, ci ho litigato per un bel po’. Il primo libro fatto con il computer mi è costato tante lacrime [ride]: piangevo tutti i giorni perché non riuscivo a raccapezzarmi, per fare cose che fino a quel momento avrei fatto in cinque minuti su carta impiegavo giornate intere. Poi, piano piano, non solo mi sono abituata a questo nuovo strumento, ma ne ho visto l’utilità e le grandissime potenzialità in termini di creatività. Ho imparato a considerarlo uno strumento che mi forniva anche una tecnica, con le sue caratteristiche, opportunità e vincoli. Quella digitale non è di per sé una tecnica veloce: velocizza alcune operazioni, certo, ma porta con sé anche rischi: poter copiare, modificare e aggiungere particolari molto velocemente può portare a una sorta di ansia, non ci si fermerebbe mai. Il computer è una meravigliosa scatola magica che offre un numero infinito di possibilità e soluzioni che prima non ci sarebbe mai immaginate e che stimolano anche nuove visioni e nuove immagini, basta esplorare le sconfinate potenzialità del mezzo. Grazie al computer c’è stata quella che io chiamo la “rivoluzione copernicana” dell’illustratore: poter fare un passo indietro nel tempo, tornare sui passaggi già compiuti e poterli correggere o conservare. Prima, una macchia su un acquerello significava dover ricominciare da capo un lavoro; adesso basta un click per tornare indietro e rimediare. L’uso del computer sta portando alla riduzione dello spazio necessario per lavorare: non c’è più bisogno di disporre di grandi tavoli, monumentali cassettiere e armadi per i materiali e gli originali. Un problema con il computer è che non si riesce mai ad avere una visione d’insieme dell’immagine: nel monitor puoi vedere benissimo un particolare da vicino, senza però vedere l’immagine completa, oppure puoi vedere l’immagine completa, ma i particolari sono indecifrabili. Dunque vedi sempre solo una porzione di quel che stai facendo. D’altra parte il computer è una vera risorsa per gli illustratori un po’ anziani, perché permette di ingrandire il particolare sul quale si lavora ed aggirare la presbiopia anche senza occhiali. Sorprendentemente, nessun problema di affaticamento agli occhi: basta avere un ottimo monitor. Insomma, è uno strumento di lavoro affascinante, stimolante, imprescindibile.

Ho avuto occasione di vedere tuoi lavori e di vederti lavorare. Usi molto le texture, superfici con determinate caratteristiche, intrecci di linee e colori che poi mescoli in digitale… come è nato questo metodo di lavoro?

Una componente fondamentale è la mia passione per le cose belle che possono venir fuori dalla sperimentazione, dal pasticciare, dal sovrapporre, scansionando e elaborando stesure ad acrilico o acquerello e oggetti che hanno una trama – giornali, riviste, pietre etc… L’altra grande ispirazione viene dai laboratori fatti per tanti anni con i bambini, ritagliando foto dai giornali di moda. Si trovavano foto bellissime, grandi, su carta patinata, un po’ rigida. Combinando fondi a tinta piatta e ritagli dalle foto si creavano degli stacchi particolari tra figure e sfondo, ombre ed effetti tridimensionali. Ne venivano fuori dei collage eccezionali. 
Ad un certo punto ho trasferito questo tipo di lavoro sulle mie illustrazioni, utilizzando le texture prodotte sperimentando col computer, come elementi per il collage. Il collage è qualcosa di molto interessante, l’ho imparato da Leo Lionni e Bruno Munari. La sovrapposizione di texture diverse già crea uno scenario. Creare texture e utilizzarle per comporre collage dà calore e arricchisce l’immagine. E il mezzo digitale permette di mescolare con grande libertà anche immagini fotografiche e disegno.

Questo mese, “La Vita Scolastica” e “Scuola dell’infanzia” dedicano ai loro lettori uno speciale sullo star bene a scuola. Tu hai studiato arteterapia. In che modo l’arte e le illustrazioni possono favorire buone crescite e buone relazioni a scuola, secondo te? 

Ai bambini fa bene “FARE ARTE”: sporcarsi le mani con i colori, usare i materiali più diversi, disegnare, dipingere, scoprire la gioia del fare senza la paura di non saper fare.
Avrebbero bisogno di più spazi di creazione autonoma. Le illustrazioni li ammaliano, li formano, aprono gli occhi e la mente alla fantasia, certo: ma “fare arte” è la chiave del vero benessere dei bambini. Sarebbe ottimo se ci fosse più tempo, a scuola e fuori, dedicato alle attività artistiche. Dipingere, disegnare, modellare sono attività formative, liberatorie, rilassanti, piacevoli, gratificanti. Fa bene anche a noi “grandi” osservare quanta bellezza può nascere dalle mani e dalla curiosità dei bambini, e il mio consiglio è di “fare” insieme a loro, per imparare da loro.

La prima immagine è tratta dal blog di Giulia Orecchia, viene da I disegni arrabbiati di Italo Calvino. La seconda immagine è tratta dalle illustrazioni di Hänsel e Gretel. C’era una volta una favola in musica. La terza immagine è tratta dalle illustrazioni a Il Ghiribizzo di Bruno Tognolini.

[intervista a cura di F. Tamburro e E. Frontaloni]