Pordenone, mostra ARIA GIOCHI LUCE

Alla Galleria Sagittaria di Pordenone, organizzata dal Centro Iniziative Culturali di Pordenone, con la cura attenta di Silvia Pignat con una bellissima introduzione di Angelo Bertani, una mostra di più di 100 tavole, giochi e libri. Aperta dal 14 settembre al 17 novembre 2024.

LA PRESENTAZIONE di Angelo Bertani

«C’è sempre qualche vecchia signora che affronta i bambini facendo delle smorfie da far paura e dicendo delle stupidaggini con un linguaggio informale pieno di ciccì e di coccò e di piciupaciù. Di solito i bambini guardano con molta severità queste persone che sono invecchiate invano; non capiscono cosa vogliono e tornano ai loro giochi, giochi semplici e molto seri

                                                                       (Bruno Munari, Arte come mestiere, 1966)

Fantasia, immaginazione, creatività. Tre termini che paiono essere dei sinonimi, ma in realtà non lo sono se non per un uso generico. Tre concetti che bene si applicano anche al campo dell’illustrazione per l’infanzia e ci sono utili, in qualità di fruitori adulti (di mediatori possibili con il mondo dell’infanzia), di comprenderne meglio i caratteri e le qualità.

      La fantasia corrisponde alla facoltà di rappresentarsi cose o eventi che vanno oltre la dimensione consueta o ordinaria e permette di creare una realtà altra: liberatoria e positiva nel caso dell’illustrazione per l’infanzia, dove gli orchi e le streghe, qualora ce ne fossero ancora, avrebbero comunque la peggio.

     L’immaginazione, lo dice la parola stessa, è innanzi tutto la facoltà di formare le immagini, di farle nascere e di elaborarle concretamente o virtualmente secondo la propria sensibilità e la propria personalità. Tuttavia l’immaginazione, come del resto tutte le nostre capacità, non è mai priva di radici, inconsce o consce, e si porta dietro un ricco bagaglio di elementi simbolici che deriva da un patrimonio antropologico e culturale collettivo di profondità plurimillenaria.

     La creatività, infine, sembra essere il termine più attinente alla pratica artistica, se non altro perché deve dare prova di sé, deve cimentarsi nel campo del “fare”, quando invece fantasia e immaginazione potrebbero anche restar custodite nella torre d’avorio della soggettività, nella mente e nell’animo dell’individuo. La creatività, ce lo dice la psicologia, corrisponde dunque alla capacità di produrre idee, di rivelare originalità nel proporre innovative forme di pensiero, di definire e strutturare in modo nuovo le proprie esperienze e conoscenze: e proprio quest’ultima caratteristica ci dice che la creatività può e deve essere coltivata, confermando così il vecchio principio che nulla nasce dal nulla.

     Giulia Orecchia ha avuto tra i suoi maestri un campione della creatività, Bruno Munari. Il metodo del “gran lombardo” consisteva prima di tutto nel saper vedere. La sua ascendenza futurista gli aveva insegnato a distruggere il chiaro di luna delle visioni stereotipate, a contestare i musei polverosi delle idee trite e ritrite, a guardare il mondo di traverso e in diagonale, per capire meglio, per vedere di più e in modo innovativo. Il collage come forma d’arte (se ne contendono il primato cubisti, futuristi, dadaisti) corrisponde per davvero alla creazione di un  singolare universo dinamico partendo dalla distruzione di quello statico precedente: fare a pezzi il vecchio mondo è certamente un’operazione da avanguardia storica, ma se ne ricaviamo oggi il succo, cioè la sostanza del metodo (messa tra parentesi la provocazione che ora non apparirebbe più tale, tante ne abbiamo viste) ecco allora che quello scomporre e ricombinare per generare forme nuove può avere una sostanza creativa di rilievo, specie nell’attuale momento storico quando tutto il mondo ci sembra disaggregato e bisognoso invece di unità e organicità rigenerate.

     Aver fatto tesoro del metodo di Bruno Munari, al tempo stesso futurista divergente e maestro della semplicità, è il primo dei meriti di Giulia Orecchia. L’illustratrice milanese ha trasferito quel modo di intendere e di vedere nella dimensione propria dell’illustrazione che si confronta alla pari con un testo narrativo per l’infanzia (in verità non solo per l’infanzia): il collage, dapprima reale e poi con il tempo virtuale e digitale, è diventato per lei non tanto un mezzo quanto piuttosto un linguaggio vero e proprio per dialogare con i piccoli lettori. Se il disegno corrisponde al creare una forma a partire dal vuoto del foglio di carta o dello schermo di un computer, il collage invece prende dalla realtà materiale del mondo gli elementi di cui servirsi per creare una forma. Vi è in questa operazione un’adesione rassicurante a ciò che conosciamo e che ci circonda: non vi è l’ansia del vuoto (il metaforico e dannato foglio bianco) bensì il recupero di materiali (reali e virtuali che siano) che ci invitano a un riuso secondo fantasia e immaginazione. È un mondo colorato e simbolicamente vitalissimo quello che Orecchia fa a pezzi (si fa per dire) per ricomporlo secondo forme narrative in cui immagini e parole interagiscono paritariamente e diventano una cosa sola. I giochi, poi, quelli creati dalla nostra illustratrice vanno per la stessa strada: non propongono storie e mondi preconfezionati, ma invitano i più piccoli a farseli i mondi, combinando assieme forme e frammenti presi qui e là; ancora un’eredità cubista-futurista-dadaista resa funzionale a un gioco serio da cui non devono distrarre, per favore, né le maestre, né le zie, né i nonni.

       Nei personaggi dell’illustratrice rimane sempre traccia del metodo, quel vedere superfici e colori e ritagliare. Le sue forme un po’ spigolose non nascondono il taglio delle forbici virtuali, ma anzi ne esibiscono la traccia come codice linguistico. In fondo è un invito al fare oltre che al guardare, è un invito laboratoriale, rivolto innanzi tutto ai bambini: come dire, prendete un paio di forbici (perché no anche digitali) fate a pezzi ciò che vi capita a tiro e create un vostro piccolo universo, popolato da tanti piccoli amici. Il senso ultimo della didattica della semplicità di Munari trova quindi nelle opere di Giulia Orecchia una manifestazione coerente e di grande qualità, comunque sempre dalla parte dei bambini: il che vuol anche dire non trattarli da poveri ingenui quanto piuttosto da individui in formazione (che dunque hanno una loro personalità). Ecco allora nelle illustrazioni i riferimenti colti (della cultura del vedere, come l’uso dei colori complementari, i colori delle avanguardie) perché si cresce anche con il confronto con la qualità, non certo con le banalità delle semplificazioni. La semplicità, è bene ribadirlo, è un valore alto. La semplificazione invece ha sempre finalità strumentali e regressive. La nostra illustratrice ha per finalità la prima, e non intende derogare mai. Ecco perché nel suo lavoro fantasia, immaginazione e creatività trovano un’esemplare e originale sintesi.

                                                                                            Angelo Bertani